Mi ricordo una delle tante
domeniche di primavera. Un corposo vociare proveniva dalla grande sala
di quella che noi chiamavamo “casina”.
“Mamma
quanto manca?”. Valentina, ancora con quel simpatico spazio tra gli
incisivi, si affacciava sempre in cucina durante i preparativi, non
tanto per la fame, mi avrebbe confessato da grande, ma per il desiderio
di scorgermi intenta in quello che rendeva i miei occhi più luminosi del
solito.
Il ragù stufava nella grande casseruola, con un rumore
cadenzato che mi cullava. Ripulivo con cura il passaverdura – allora non
c’erano i minipimer – riempivo i panzerotti, mentre m’inebriavo di
prezzemolo, di casa, dell’odore dei miei figli, di scarpe, profumi,
capelli, parole, vita.
Non ricordo neanche se ci
fosse la tv accesa, c’era così tanto brusio. Avevo appena trent’anni ed
erano gli anni settanta. Mio marito possedeva una catena di negozi
d’abbigliamento firmato, io insegnavo già educazione tecnica alle medie,
avevamo una casa al mare, il macinato era sempre di prima scelta,
potevamo avere tutto quello che si poteva comprare, eppure ciò che
preferivo, in quelle domeniche odorose di basilico e cipolla, era il
suono della grande scodella che poggiavo a mezzogiorno in punto al
centro della tavola piena della mia vita. I miei nipoti, finché era viva
mia sorella, la domenica hanno sempre mangiato solo e soltanto i miei paccheri al
ragù. Mio marito, poi, li adorava. Gli piaceva mangiare quello che
cucinavo e quando lo faceva, seduto di solito di fronte a me, mi
guardava come se stesse mangiando me. Per questo io ai piaceri della
tavola preferivo quelli del sesso con lui.
Finita
la baraonda io e mia sorella lavavamo i piatti nel gigantesco e spartano
lavello. Lo facevamo più lentamente possibile, così le nostre
chiacchierate della domenica sarebbero durate più a lungo. Quando mio
marito veniva in cucina con Pietro, il figlio più grande, con una scusa o
anche senza motivo, ascoltava qualche estratto del nostro cianciare,
poi puntualmente sentenziava “Andiamo via, Pietro, sono cose da donne” e
ridacchiava, complice.
Oggi è domenica ed uno
strano grigiore avvolge il piccolo quadrato di cielo che si scorge dalla
mia cucina. Una cucina – o meglio, un angolo cottura – in cui “non ci
si rigira”, come dicono qui in Toscana. Ma dicono anche che sia
abbastanza per “un’anziana sola autosufficiente”.
Ieri
sono scesa giù dal macellaio che, nonostante sia diventato il mio
appuntamento fisso del sabato pomeriggio, non mia ha mai rivolto una
parola che andasse oltre il “quanto?” “due chili bastano?” e il prezzo,
sempre più alto ovviamente. Nonostante non conosca neanche il mio nome,
deve aver capito che sono un’anziana sola autosufficiente perché quando
compro la mia solita quantità industriale di carne per il ragù della
domenica mi guarda come se fossi matta.
Dall’odore
so per certo che mancano appena cinque minuti perché la cottura sia
ultimata. Ho già sterilizzato i vasetti, quelli buoni col tappo alto: si
aggiungeranno agli altri venti-trenta che sono nella credenza, in
attesa, come me, che venga uno dei miei figli e se li porti a casa.
Valentina
non mi ha neanche lasciato il piacere di tramandarle la mia arte
culinaria. Avrà imparato dal libretto delle istruzioni del suo
efficientissimo e costosissimo Bimby. Andò via di casa per sposarsi un
veneto dell’aeronautica militare. Poco male, non credo avrebbe
apprezzato la nostra Pastiera.
Tiro su il coperchio
e spengo il fuoco. Sul mestolo di legno il corposo e lucido ragù. Metto
in bocca e assaggio. È buonissimo … ma mi disgusta. Nel tegame ancora
fumante aggiungo qualche goccia d’acqua salata che scende dal mio viso.
Apro
lo sportello della credenza e con un gesto quasi compulsivo afferro il
pacchetto dei biscotti. Mi siedo sulla mia poltrona da anziana sola
autosufficiente, accendo la tv e trangugio qualche industrialissimo
biscotto davanti a qualche spettacolo della domenica di cui guarderò
soltanto il lento scorrere delle inquadrature, con la camicia piena di
briciole.
Passa qualche minuto. All’improvviso una
serie di suoni conosciuti per quanto insopportabili mi scuote
dall’intorpidimento. È quello del piano di sopra. Un contabile, mi
dicono, che nel tempo libero si diletta a massacrare un sassofono. Sa
benissimo che mi dà fastidio, soprattutto quando voglio riposare!
Passano i minuti e l’artista in erba non accenna a smettere. Mi alzo,
sbriciolando per terra, con la bocca ancora un po’ impastata, prendo la
scopa per il manico e incomincio a picchiettarlo sul soffitto.
Di solito funziona.
Difatti, tutto cessato. Già che sono in piedi guardo ancora nella credenza in cerca di qualche barretta di cioccolato.
Suona
il campanello. Non ricordavo neanche più che suono avesse. Sarà
l’artista-contabile risentito del mio avvertimento. Forse non sa che la
legge in merito ha stabilito che…
“Buongiorno”.
Non sembra arrabbiato.
“Buongiorno …” rispondo stranita.
“Mi scusi, non ci pensavo che potesse esserci qualcuno solo in casa a riposare, di domenica”.
Ecco, ci mancava lui ad infierire.
“No,
no, mi perdoni” deve aver tradotto la mia espressione, “Non mi
fraintenda, anch’io sono solo in casa di domenica. Comunque, piacere,
Fabio: contabile divorziato e solo.”
“Piacere, Rosalba, anziana sola autosufficiente”.
Sorride.
“Lo
so, suono da fare schifo. Ma, sa, da quando vedo mia figlia una volta a
settimana, non sopporto il silenzio. E i numeri, si sa, fanno così poco
rumore.”
“Anche mio figlio lavora con i numeri. È ingegnere edile. Però non suona…”
Ecco, che cosa dico? Ora si offende e se ne va.
“Che odorino … cos’ha cucinato di buono?”
Dal piccolo quadrato di cielo, in un piccolo appartamento, irrompe qualche timido raggio di sole.
La
tavola è vestita di una bizzarra tovaglia indiana, regalo
dell’ex-moglie di Fabio; al centro una scodella di tagliatelle di riso
al ragù: Fabio è celiaco.
Carne di manzo, strutto,
cipolle, sedano, carote, prezzemolo, piperna.. il tutto peppiato per
cinque ore. Un contabile divorziato e un’anziana autosufficiente.
INSIEME q.b. (l’ingrediente fondamentale che anche le migliori ricette
dimenticano).
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